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Pensioni, INPS: “Nel 2022 16 milioni di pensionati. Spesa ammonta a 320 miliardi”

(Teleborsa) – Nel complesso, il numero di pensionati è rimasto sostanzialmente stabile, con circa 16 milioni di persone che percepiscono una pensione. Di questi, il 52% sono donne che percepiscono in media un importo del 36% inferiore a quello ottenuto dagli uomini. La spesa complessiva lorda per le pensioni ammonta a poco più di 320 miliardi di euro di cui una quota di 315 miliardi è sostenuta dall’INPS. È quanto emerge dal XXII Rapporto annuale dell’Inps, relativo all’anno 2022, e presentato oggi alla Camera dei Deputati.

Dei pensionati italiani, il 96% circa percepisce almeno una prestazione dall’INPS e oltre la metà della spesa è destinata a prestazioni di anzianità/anticipate, seguite dalle pensioni di vecchiaia e dalle pensioni al superstite. Le prestazioni assistenziali rappresentano l’8% del totale. Nel 2022 si è registrata una diminuzione del 3% delle nuove prestazioni previdenziali, principalmente a causa della diminuzione delle pensioni anticipate derivata dalla conclusione di Quota 100. Si è assistito anche a una diminuzione delle pensioni al superstite, che nel 2021 avevano raggiunto un picco, presumibilmente a causa dell’aumento dei decessi legato alla crisi pandemica. Si assiste, invece, ad un incremento dell’8,1% delle prestazioni assistenziali.

Reddito medio – Per il 96% dei pensionati che percepiscono una prestazione dall’Inps e il reddito lordo mensile medio è di circa 1.687 euro. Il restante 4% non beneficia di prestazioni da parte dell’Inps, ma percepisce rendite Inail o pensioni di guerra o ancora pensioni da casse professionali, fondi pensione e enti minori.

Pluralismo previdenziale – Il pluralismo previdenziale, ossia la pratica di versare contributi a diverse casse previdenziali contemporaneamente o in momenti diversi, è diventato un fenomeno sempre più comune nella vita contributiva dei lavoratori e comporta il rischio di una perdita totale o parziale della pensione. Nel complesso, nel 2022, il 18% dei pensionati di vecchiaia e anzianità riceveva benefici derivanti da contributi versati a fondi diversi, corrispondente a circa il 17% del totale delle pensioni in essere. L’11% dei pensionati ha percepito una pensione che era il risultato di ricongiunzione, mentre poco più del 3% ha percepito una pensione derivante da cumulo. Un ulteriore 3% ha percepito una pensione supplementare, mentre molto poco utilizzato risultava l’istituto della totalizzazione. L’Inps evidenzia inoltre che fino al 2010, la diffusione di questi istituti è stata piuttosto bassa e che il crescente ricorso alla ricongiunzione osservato negli anni successivi è dovuto all’inasprimento del requisito contributivo per l’accesso alla pensione, soprattutto anticipata, imposto dalle riforme del sistema previdenziale.

Opzione donna – Al 1 gennaio 2023 le donne andate in pensione con “Opzione donna” erano 174.535 (il 57,9% delle quali erogate a lavoratrici dipendenti). I pensionamenti con “Opzione donna” costituiscono il 16,3% del complesso delle pensioni anticipate liquidate a donne dal 2010 e l’assegno medio è del 39,8% più basso rispetto alla media delle anticipate (1.171,19 euro contro 1.946,92 euro). La differenza di importo, sottolinea l’istituto di previdenza, è in parte riconducibile al ricalcolo contributivo e in parte alla minore contribuzione rispetto alle anticipate, oltre al fatto che la propensione a utilizzare l’opzione è maggiore tra le lavoratrici nelle classi di reddito più basse e, quindi, con minore contribuzione. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale delle prestazioni il 68,2% viene erogato al Nord, dove “Opzione donna” rappresenta anche il 19% degli anticipi, una percentuale superiore rispetto al resto del Paese. Le liquidazioni per anno di decorrenza non sono distribuite nel tempo in modo omogeneo e risentono delle riforme che si sono susseguite a partire dal 2010, la riforma Fornero in particolare che, bloccando di fatto il pensionamento di vecchiaia e di anzianità delle donne, ha favorito il ricorso all’opzione dal 2012 in poi. Il calo del 2016 è dovuto all’innalzamento del requisito anagrafico per l’adeguamento alla speranza di vita. L’esiguo numero di pensionamenti del 2017 è invece dovuto alla mancata proroga di “Opzione donna”, per cui con la legge di bilancio 2017 hanno potuto ricorrere all’opzione solo coloro che avevano maturato i requisiti d’età di 57/58 anni nel 2015 (sen- za l’aumento previsto invece in precedenza per l’adeguamento alla speranza di vita). L’ulteriore calo del 2018 è infine riconducibile all’innalzamento dell’età a 58/59 anni. Per quel che riguarda, invece, l’impatto di Opzione donna sul bilancio dell’Istituto si mostra che il risparmio derivante dal pagamento di una prestazione minore di quella ordinaria, anche se per un numero maggiore di anni, è superiore alle perdite contributive sulle optanti fino al 2019. A partire dal 2020 però la situazione si inverte, poiché il costo per le erogazioni immediate non è più compensato dai risparmi futuri derivante da pensioni più basse, a causa del graduale incremento della quota contributiva delle pensioni in regime ordinario.

Quota 100 – Sono quasi 433mila le persone andate in pensione con Quota 100 (432.888). Il Rapporto annuale dell’Inps sottolinea come dopo le quasi 380mila uscite nel triennio di vigenza della misura (2019/2021) nel siano uscite altre 51mila nel 2022 avendo maturato i requisiti negli anni precedenti e 2.498 nel 2023 (al 31 maggio). Il ricorso a Quota 102 (l. n. 234 del 2021) è invece stato modesto per cui le liquidate nel 2022 sono poco meno di 5.700 (altre 4.874 uscite sono state rilevate nel 2023), mentre nel 2022 è nuovamente aumentato il ricorso a Opzione donna (oltre 26.000 le domande accolte nell’anno). Nel 2023 è atteso un calo vista la stretta sui requisiti. Quest’anno sono già state accolte 5.125 domande per Quota 103 (62 anni di età ed almeno 41 di contributi) nei primi cinque mesi. “Questi istituti – si legge – consentono un’uscita anticipata al di fuori dei principi generali in termini di anzianità contributiva e anagrafica e sebbene l’importo della pensione sia correlato negativamente all’aspettativa di vita al pensionamento, assicurando in questo modo equità attuariale e tra le generazioni, almeno per la parte contributiva, questi provvedimenti incidono negativamente sul bilancio pensionistico. Infatti, l’accelerazione nelle uscite rispetto alla normativa vigente implica un anticipo della spesa per pensioni, a cui seguono minori spese in quanto l’importo delle prestazioni erogate è inferiore a quanto sarebbe avvenuto senza il provvedimento. Tuttavia, vi è evidenza che nel breve periodo la somma delle maggiori uscite sarà superiore alla somma dei risparmi e quindi l’operazione aumenterà il valore del debito pensionistico”.

L’impatto dell’inflazione sul potere d’acquisto – Le famiglie più colpite dalla fiammata inflazionistica del 2022 si mostrano essere quelle dei pensionati italiani, specialmente quelle appartenenti ai due quinti di spesa più poveri, che perdono tra il 2018 e il 2022 il 10,6% del reddito reale (perdita oltre dieci volte maggiore delle famiglie con solo redditi da lavoro); fortemente colpite risultano anche le famiglie di pensionati dei quinti più ricchi, con una perdita del reddito reale pari al 7,5%. Dall’analisi condotta emerge che uno dei fattori di contenimento del crollo dei redditi reali a seguito dell’inflazione sia la maggiore offerta di lavoro, mentre la perequazione pensionistica assume un ruolo assai marginale in questa dinamica.


Fonte: http://news.teleborsa.it/NewsFeed.ashx

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